New Literacies - Pier Cesare Rivoltella

Contributo per il convegno conclusivo del progetto “Narrazioni Visive”, Marotta-Mondolfo 28/11/2019

 

C’era una volta il digitale a scuola. Sì, c’era una volta, perché il sospetto (la certezza!) è che oggi occorra impostare le cose in modo diverso.
Veniamo da almeno venticinque anni di quasi esclusiva attenzione alle tecnologie, quasi come se la capacità della scuola di intercettare il cambiamento dipendesse dal suo livello di digitalizzazione. Si tratta di un’attenzione caratterizzata da “fissazioni” periodiche: le LIM, le classi 2.0, il tablet, il BYOD, il coding, la robotica. Il presupposto implicito mi pare sia sempre lo stesso: l’idea neofunzionalista che occorra “preparare” gli studenti per i compiti che dovranno svolgere nel sistema produttivo e nella società e che, farlo in una società informazionale, non possa voler dire altro che anticipare già in scuola il momento dell’incontro con il digitale, dal punto di vista della padronanza dei linguaggi e della conoscenza degli applicativi.
Credo che questo modo di impostare la questione non colga il significato profondo dei cambiamenti in corso, che è culturale non strumentale. Provo a spiegare perché.

Competenze dinamiche

La “scuola digitale” ha concesso molta enfasi alla competenza digitale. E poi l’ha declinata, a partire dal DIGICOMP, nei termini di un capitolato articolatissimo di dimensioni, criteri, indicatori. “Misurare” la competenza di uno studente, in questa prospettiva, si riduce a “flaggare” gli indicatori posseduti, un po’ come un tempo con le figurine Panini: “Ce l’ho, non ce l’ho, …”.
Ci sono molte controindicazioni a questo modo di intendere il problema.
La prima è che è difficilmente sostenibile: quando il quadro degli indicatori è troppo vasto e eccessivamente analitico, diventa poco utilizzabile in scuola.
La seconda è che le diverse dimensioni della competenza digitale non si possono dire raggiunte una volta per tutte: la realtà è costantemente in divenire, si ridefinisce continuamente e lo stesso capita ai soggetti, soprattutto in età evolutiva. Questo rende più opportuno parlare di competenze dinamiche: non un elenco da spuntare, ma un cursore da spostare lungo i binari della realtà.
Il concetto di Dynamic Literacies è al centro della riflessione di Potter eMcDougall e del loro bellissimo libro: Digital Media, Culture and Education. Theorising Third Space Literacies. Nel libro i due studiosi della University of London spiegano perché oggi le competenze debbano essere dinamiche aggiungendo un ulteriore argomento a quello della necessaria flessibilità.
Esse non consistono semplicemente nella conoscenza dei linguaggi e nella capacità di fare analisi dei testi (come è sempre accaduto nel lavoro della Media Education), non si riducono al design – nel senso largo che questo termine riconosce alla progettazione – , ma si devono allargare alla capacità di comprendere la sociomaterialità e a tutte quelle competenze che sono tipiche di quelli che loro chiamano “terzi spazi”.

Comprendere la sociomaterialità

I media, oggi, non sono più separabili dagli oggetti di consumo, dalla vita. Stanno progressivamente scomparendo “dentro” le cose (Eugeni, 2015) e “dentro” le nostre vite: come ha osservato acutamente Floridi (2014) non siamo più noi a essere on line, ma sono i media a essere on life. Questo significa che non si possono più isolare gli strumenti, i dispositivi, dai contesti e dal sistema di relazioni di cui sono parte. Un esempio aiuterà a capire meglio.
Spesso incontriamo “esperti” che propongono alle scuole esperienze detox rispetto all’uso dei media, leggiamo articoli e instant book che spiegano ai genitori come aiutare il proprio figlio a controllarsi nell’uso dei dispositivi. Si tratta di prospettive distopiche, vittime di astigmatismo concettuale: vedono bene il problema vicino (Come moderare l’uso del cellulare?), ma non riescono a mettere a fuoco quello che sta sullo sfondo. E sullo sfondo c’è un capitalismo digitale che usa i dati che tutti noi produciamo di continuo (e che gli regaliamo) per conoscerci meglio, capire come intercettare in modo più efficace i nostri gusti, orientare i nostri comportamenti di voto, costruire i nostri quadri valoriali. Il problema della Media Education, oggi, è aiutare i ragazzi a usare meno lo smartphone (centratura sullo strumento) o
condurli a comprendere il sistema di interrelazioni sociali, economiche, politiche di cui essi sono parte (centratura sulla sociomaterialità)?
Come si capisce educare l’uso strumentale è molto più semplice che far riflettere su una sociomaterialità complessa, in cui niente è come sembra, il mercato rischia di essere dappertutto, l’esperienza di apparente libertà offerta dalla disintermediazione di fatto è solo un’illusione creata ad arte dalle logiche sottese proprio a quegli spazi – penso ai social – che ci fanno sentire “liberi” di dire qualsiasi cosa.

Terzi spazi

I terzi spazi sono luoghi sociali e contesti di apprendimento diversi dalla famiglia e dalla scuola, molto simili a quelli che Gee (2012) chiama gruppi di affinità e Jenkins (2010) culture partecipative. Ne sono esempi: un fablab, uno spazio di coworking, un coderdojo, ma anche un cineclub, un circolo di scacchi, una sala prove, un qualsiasi spazio di libera aggregazione. Le caratteristiche di un terzo spazio sono: le logiche di peering, l’orientamento esperienziale, la motivazione e il piacere di “fare musica insieme”, l’assenza di apprendimenti “insegnati”.  Spesso in questi spazi la medialità viene esperita e vissuta per le sue opportunità, all’interno di una sociomaterialità incline alla creatività. Sono luoghi di costruzione di narrazioni (spesso, quasi sempre, digitali) i terzi spazi: e queste narrazioni servono ad aiutare il processo di costruzione identitaria, contribuiscono alla percezione di autoefficacia (molte volte chi a scuola non funziona, nel terzo spazio è un leader).
E la scuola? La scuola dovrebbe chiedersi come poter contribuire a sviluppare quelle competenze che servono a “leggere” la sociomaterialità e che normalmente si sviluppano in un terzo spazio: sono queste le new literacies, le nuove competenze, di cui i cittadini di domani hanno bisogno per abitare il loro tempo.
Il cinema, il visuale, la creatività, il raccontare e il raccontarsi, sono da questo punto di vista delle ottime opportunità: il cineclub, la redazione del giornale scolastico o della webradio di istituto, tutte le esperienze di gestione partecipativa della classe, gli spin-off, i gruppi di approfondimento elettivi, sono esempi di come le logiche del terzo spazio possano trovare ospitalità anche in scuola. La sfida è cambiare la nostra idea di scuola (Rivoltella, 2018).

Riferimenti bibliografici
Eugeni, R. (2015). La condizione postmediale. Brescia: ELS La Scuola.
Floridi, L. (2014). La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo. Tr. It. Raffaello Cortina, Milano 2017.
Gee, J.P. (2007). Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013.
Jenkins, H. (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Tr. it. Guerini & Associati, Milano 2010.
Potter, J. & McDougall, J. (2017). Digital Media, Culture and Education. Theorising Third Space Literacies. London: Palgrave Macmillan.
Rivoltella, P.C. (2018). Un’idea di scuola. Brescia: Scholè.